lunedì 14 settembre 2009
Chi scrive è il giornalista Gian Gaetano Cabella, ex direttore del "Popolo di Alessandria". Nell'aprile del 1945, non appena seppi che Mussolini era arrivato a Milano, chiesi e ottenni un'udienza dal capo della Repubblica Sociale. L'intervista cominciò come una delle tante conversazioni che Mussolini aveva non di rado con questo o con quel direttore di giornale, ma ben presto assunse una portata eccezionale: sia perché fu l'ultima che Mussolini concesse, sia perché egli stesso volle rivederla, completarla e correggerla nella sua redazione definitiva. Fu il ministro Zerbino che il 19 aprile mi comunicò l'invito. Mussolini mi avrebbe ricevuto all'indomani, in Prefettura. Feci subito rilegare i numeri del giornale: tutta la edizione milanese dal settembre 1944 fino all'ultimo numero, uscito con la data del 21 aprile 1945. Volevo offrire al Duce l'intera collezione, insieme coi prospetti e i grafici della tiratura, che da 18.000 copie vendute nel primo anno di vita era ora asceso a 270.000. Molti camerati mi consegnarono scritti e messaggi da presentare al Duce. Preparai anche una breve relazione delle lunghe trattative che avevo condotto con elementi partigiani, i quali mi avevano scritto invitandomi a prendere contatto con alcuni loro rappresentanti. Alle 14.30 del 20 aprile ero in Prefettura. Nella prima sala d'aspetto passeggiavano e discorrevano ufficiali e gerarchi. Il Prefetto attraversava spesso la sala che divideva lo studio di Mussolini dal suo ufficio. Nel secondo salone c'erano il colonnello Colombo, comandante della "Muti", il vice comandante ed altri. Alle 15 giunsero il comandante della Decima, Borghese, accompagnato da alcuni ufficiali e dal capo di Stato Maggiore della GNR. Il ministro Fernando Mezzasoma parlava con un gruppo di giornalisti. Un'apparente serenità regnava fra quelle persone. Un ufficiale delle SS germaniche passeggiava fumando. Il servizio di guardia era limitato al portone d'ingresso del palazzo del Governo e a due sentinelle armate (una SS tedesca e un milite della Guardia) alla postierla della scaletta che dal cortile conduceva all'appartamento occupato dal Duce e dai membri del governo. Alle 15.20 giunse il Questore, che parlò col Prefetto Bassi. Poco dopo uscì dallo studio del Duce, Pellegrini. Nel frattempo, mi aveva raggiunto Galileo Lucarini Simonetti, mio redattore capo e già direttore di "Leonessa", settimanale della Federazione bresciana. Finalmente, la porta del Duce si aprì. L'usciere disse forte il mio nome. Mi precipitai dentro. Deposti i pacchi sopra una sedia alla mia destra, salutai sull'attenti. Mussolini mi accolse con un sorriso. Si alzò e mi venne vicino. Subito osservai che stava benissimo in salute, contrariamente alle voci che correvano. Le tre volte che mi aveva ricevuto, nel '44, non mi era mai apparso così florido come ora. Il colorito appariva sano e abbronzato, gli occhi vivaci, svelti i suoi movimenti. Era scomparsa quella magrezza che mi aveva tanto colpito nel febbraio dell'anno avanti. Indossava una divisa grigio-verde senza decorazioni né gradi. Lasciò i grossi occhiali sul tavolo, sopra un foglio pieno di appunti a matita azzurra. Notai che il tavolo era piccolo: molti fascicoli erano stati collocati sopra un tavolino vicino. Alcuni giacevano perfino in terra, presso la finestra. Sopra una sedia, scorsi due borse in cuoio grasso ed una di pelle giallo scura. Mussolini mi posò la destra sulla spalla e mi chiese: "Cosa mi portate di bello?". Non seppi rispondere lì per lì. Come succedeva a molti davanti a lui, mi sentii alquanto disorientato e dopo una breve esitazione risposi che ero felice di vederlo e che gli portavo la raccolta del giornale. Mi batté la mano sulla spalla. Fissandomi, mi disse: "Vi elogio per quanto avete fatto per il consolidamento della Repubblica Sociale. Pavolini mi ha riferito del vostro discorso a Torino per il 23 marzo e del successo che avete ottenuto. Non vi sapevo anche oratore". Gli offersi la raccolta del giornate e gli mostrai i grafici della diffusione e della vendita. Gli consegnai diversi scritti di fascisti, di combattenti, di giovanissimi. Sfogliò la raccolta soffermandosi su alcuni numeri. Poi mi chiese: "Desiderate qualche cosa da me?". Dopo un momento di perplessità risposi: "Il mio premio l'ho già avuto, è stato l'elogio che avete voluto farmi. Oso troppo se vi chiedo una dedica?". Gli mostrai una grande fotografia. La fissò un attimo, poi tornò al tavolo, si sedette, prese la penna e scrisse: "A Gian Gaetano Cabella, pilota de “Il Popolo di Alessandria”, con animo della vecchia guardia. Benito Mussolini, 20 aprile XXIII". Posò la penna. Volle ancora vedere i grafici della tiratura del giornale. Esposi brevemente i criteri che seguivo e che mi parevano giusti, quindi il Duce si soffermò sul grafico che riguardava la corrispondenza ricevuta dal pubblico, e osservò: "Molte lettere anonime, vedo…". "Nel mese di marzo - precisai - su 2785 lettere ricevute, 360 sono state anonime. Però quando le vicende dell'Asse vanno meglio, le lettere anonime diminuiscono". Mussolini prese il pacchetto delle lettere che gli avevo portato insieme con altre cose. Volle tenerle tutte: "Se avrò tempo, le leggerò stasera". Ebbi l'impressione che l'udienza fosse per finire. Allora mi feci animo: "Duce, permettete che vi rivolga qualche domanda?". Mussolini si alzò. Mi venne vicino. Guardandomi negli occhi, con un accento e un'espressione che non dimenticherò mai, mi chiese d'improvviso: “Intervista o testamento?”. A quella domanda inaspettata rimasi esterrefatto. Non sfuggì la mia emozione a Mussolini, che cercò di dissipare la mia confusione con un sorriso bonario. “Sedetevi qui. Ecco una penna e della carta. Sono disposto a rispondere alle domande che mi farete”. In preda ad una grande agitazione , mi sedetti alla sua sinistra. Molte idee mi si affollavano nella mente, ma tutte imprecise. Finalmente formulai una domanda assai generica: “Qual è il vostro pensiero, quali sono le vostre disposizioni, in questa situazione?”. Alla mia domanda, Mussolini, a sua volta domandò: “Voi cosa fareste?”. Debbo aver accennato un gesto istintivo di sorpresa. Mussolini mi toccò il braccio, e sorrise di nuovo: “Non stupitevi. Desidero sentire il vostro parere”. “Duce, non sarebbe bello formare un quadrato attorno a voi e al gagliardetto dei Fasci e aspettare, con le armi in pugno, i nemici? Siamo in tanti, fedeli, armati...”. “Certo, sarebbe la fine più desiderabile... ma non è possibile fare sempre ciò che si vuole. Ho in corso delle trattative. Il Cardinale Schuster fa da intermediario. Ho l’assicurazione che non sarà versata una goccia di sangue. Un trapasso di poteri. Per il governo, il passaggio fino in Valtellina, dove Onori sta preparando gli alloggiamenti. Andremo anche noi in montagna per un po’ di tempo” . Osai interromperlo: “Vi fidate, Duce, del Cardinale?”. Mussolini alzò gli occhi e fece un gesto vago con le mani: “E’ viscido, ma non posso dubitare della parola di un ministro di Dio. E’ la sola strada che debbo prendere. Per me è, comunque, finita. Non ho più il diritto di esigere sacrifici dagli italiani”. “Ma noi vogliamo seguire la vostra sorte...”. “Dovete ubbidire. La vita dell’Italia non termina in questa settimana o in questo mese. L’Italia si risolleverà. E questione di anni, di decenni, forse. Ma risorgerà, e sarà di nuovo grande, come l’avevo voluta io”. Dopo una brevissima pausa, continuò: “Allora sarete ancora utili al paese. Trasmetterete ai figli e ai nipoti la verità della nostra idea, quella verità che è stata falsata, svisata, camuffata da troppi cattivi, da troppi malvagi, da troppi venduti e anche da qualche piccola aliquota di illusi”. La sua voce aveva i toni metallici che tante volte avevo udito nei suoi discorsi. Poi, con fare più pacato, continuò: “Dicono che ho errato, che dovevo conoscere meglio gli uomini, che ho perduta la testa, che non dovevo dichiarare la guerra alla Francia e all’Inghilterra. Dicono che mi sarei dovuto ritirare nel 1938. Dicono che non dovevo fare questo, e che non dovevo fare quello. Oggi è facile profetizzare il passato. Eppure, a fine maggio e ai primi di giugno del 1940, se critiche venivano fatte erano per gridare allo scandalo di una neutralità definita ridicola, impolitica, sorprendente. La Germania aveva vinto. Noi non solo non avremmo avuto alcun compenso; ma saremmo stati certamente, in un periodo di tempo più o meno lontano, invasi e schiacciati.“E cosa fa Mussolini? Quello si è rammollito. Un’occasione d’oro così, non si sarebbe mai più ripresentata”: così dicevano tutti e specialmente coloro che adesso gridano che si doveva rimanere neutrali e che solo la mia megalomania e la mia libidine di potere, e la mia debolezza nei confronti di Hitler aveva portato alla guerra. La verità è una: non ebbi pressioni da Hitler. Lui aveva già vinta la partita continentale. Non aveva bisogno di noi. Ma non si poteva rimanere neutrali se volevamo mantenere quella posizione di parità con la Germania che fino allora avevamo avuto. I patti erano chiarissimi. Non abbiamo mai avuto divergenze di idee. Già all’epoca delle trattative per lo sgombero dell’Alto Adige, controprova indiscutibile delle sue oneste e solidali intenzioni, il Führer dimostrò buon volere e comprensione. Solo la vittoria dell’Asse ci avrebbe dato diritto di pretendere la nostra parte dei beni del mondo. La vittoria delle potenze cosiddette alleate non darà al mondo che una pace effimera e illusoria. Per questo voi, miei fedeli, dovete sopravvivere e mantenere nel cuore la fede. Il mondo, me scomparso, avrà bisogno ancora dell’idea più audace, più originale e più europea delle idee. Non ho bluffato quando affermai che l’idea fascista sarebbe stata l’idea del secolo XX. Non ha assolutamente importanza una eclissi, anche di un lustro. Indietro non si può tornare. La Storia mi darà ragione”. A questo punto Mussolini tacque. Scosse alcune volte la testa come per scacciare un pensiero molesto. Parlò della sua presa di posizione nel 1933-’34 fino ai colloqui di Stresa dell’aprile ’35. Affermò che la sua azione non era stata interamente compresa e tanto meno seguita né dall’Inghilterra né dalla Francia. E soggiunse: “Siamo stati i soli ad opporci ai primi conati espansionistici della Germania. Mandai le divisioni al Brennero, ma nessun gabinetto europeo mi appoggiò. Impedire alla Germania di rompere l’equilibrio continentale ma nello stesso tempo provvedere alla revisione dei trattati; arrivare ad un aggiustamento generale delle frontiere fatto in modo da soddisfare la Germania nei punti giusti delle sue rivendicazioni, e cominciare col restituirle le colonie: ecco quello che avrebbe impedito la guerra. Una caldaia non scoppia se si fa funzionare a tempo una valvola. Ma se invece la si chiude ermeticamente, esplode. Mussolini voleva la pace e questo gli fu impedito”. Dopo qualche istante di silenzio ardii chiedergli: “Avete detto che l’eventuale vittoria dei nostri nemici non potrà dare una pace duratura. Essi nella loro propaganda affermano...” “Indubbiamente abilissima propaganda, la loro. Sono riusciti a convincere tutti. Io stesso a volte mi sono chiesto la ragione di questa specie di ubriacatura collettiva. Sapete che cosa ho concluso? Che ho sopravvalutato l’intelligenza delle masse. Nei dialoghi che tante volte ho avuto con le moltitudini, avevo la convinzione che le grida che seguivano le mie domande fossero segno di coscienza, di comprensione, di evoluzione. Invece, era isterismo collettivo... Ma il colmo è che i nostri nemici hanno ottenuto che i proletari, i poveri, i bisognosi di tutto, si schierassero anima e corpo dalla parte dei plutocrati, degli affamatori, del grande capitalismo”. Mi mostrai convinto di non aver saputo sintetizzare bene tutto il suo pensiero. Mi disse: “Ne riparleremo...”. Invece non restava più né il tempo e né il modo. Pochi giorni dopo sarà Dongo, l’esecuzione, piazzale Loreto. “La vittoria degli alleati – proseguì - riporterà indietro la linea del fronte delle rivendicazioni sociali. La Russia? Dovrà cozzare fatalmente con il capitalismo anglo-americano. Sarà allora che il popolo italiano avrà la possibilità di risollevarsi e di imporsi. L’uomo che dovrà giocare la grande carta...”. “Sarete sempre voi, Duce...”. “Sarà un giovane. Io non sarò più. Lasciate passare questi anni di bufera. Un giovane sorgerà. Un puro. Un capo che dovrà immancabilmente agitare le idee del fascismo: collaborazione e non lotta di classe, carta del Lavoro e socialismo, la proprietà sacra fino a che non diventi un insulto alla miseria, cura e protezione dei lavoratori, dei vecchi, degli invalidi; assistenza e tutela della madre e dell’infanzia...”. Mussolini si passò una mano sulla fronte. Poi, dopo un attimo di silenzio, continuò: “…Moralità in tutti i campi, lotta contro l’ignoranza e contro il servilismo verso i potenti, potenziamento, se si sarà ancora in tempo, dell’autarchia, unica nostra speranza economica, esaltazione dell’orgoglio di essere italiano, educazione in profondità e non in superficie, come purtroppo avvenuto per colpa degli avvenimenti e non per deficienza ideologica… Verrà il giovane puro che troverà i nostri postulati freschi, audaci e degni di essere seguiti...”. Anche qui Mussolini fece attenzione a quanto stavo scrivendo. In una riga, corresse un errore madornale. Arrossii. Egli se ne accorse e rise. Poi disse: “Quando vi si incolpa di avere sbagliato, dite pure che Mussolini sbaglia dieci volte al giorno!”. Quindi proseguì: “Abbiamo avuto 18 secoli di invasioni e di miserie, di denatalità e di servaggio, di lotte intestine e di ignoranza. Ma, più di tutto, di miseria e di denutrizione. Venti anni di fascismo non sono bastati per dare all’anima di ogni italiano quella forza occorrente per superare la crisi e per comprendere il vero. Le eccezioni, magnifiche e numerosissime non contano. Io oggi sono come il grande clinico che non ha più la fiducia dei familiari dell’importante degente. Molti medici si affollano per la successione. Molti di questi sono già conosciuti per inetti; altri non hanno che improntitudine o gola di guadagno. Il nuovo dottore deve ancora apparire. E quando sorgerà, dovrà riprendere le ricette mie. Dovrà solo saperle applicare meglio. Un accusatore dell’ammiraglio Persano, al quale fu chiesto che colpa, secondo lui, aveva l’ammiraglio: “quella di aver perduto” rispose. Così io. Ho qui delle tali prove di aver cercato con tutte le mie forze di impedire la guerra che mi permettono di essere perfettamente tranquillo e sereno sul giudizio dei posteri e sulle conclusioni della Storia”. Nel dire “ho qui tali prove”, indicò una grande borsa di cuoio. Mi sembra, delle tre, fosse quella di pelle gialla. "Non so se Churchill è, come me, tranquillo e sereno. Ricordatevi bene: abbiamo spaventato il mondo dei grandi affaristi e dei grandi speculatori. Essi non hanno voluto che ci fosse data la possibilità di vivere…” Mussolini sorrise lievemente quando parlò della sua serenità e tranquillità. Sorrise di nuovo quando fece cenno a Churchill. Il sorriso si mutò in una smorfia di disprezzo allorché parlò degli affaristi e degli speculatori. Osai interromperlo per chiedergli d’un fiato: “Tra questi affaristi include anche il Vaticano?" “Siamo stati i primi, i soli, a ridare lustro e decoro e libertà e autorità alla Chiesa cattolica. Assistiamo a questo straordinario spettacolo: la stessa Chiesa alleata ai suoi più acerrimi nemici. La Chiesa cattolica non vuole, a Roma, un'altra forza. La Chiesa preferisce degli avversari deboli a degli amici forti. Avere da combattere un avversario, che in fondo non la possa spaventare e che le permetta di avere a disposizione degli argomenti coi quali ravvivare la fede, è indubbiamente un vantaggio. Diplomazia abile, raffinata. Ma, a volte, è un gran danno fare i superfurbi. Con la caduta del fascismo, la Chiesa cattolica si ritroverebbe di fronte a nemici d'ogni genere: vecchi e nuovi nemici. E avrebbe cooperato ad abbattere un suo vero, sincero difensore". A questo punto Mussolini tacque. Si alzò e si avvicinò alla finestra. Avevo cercato di fissare gli appunti nel modo il più esatto possibile, tenendo dietro a mala pena alle sue parole. Le cartelle erano oramai più di 30. Finalmente Mussolini si distaccò dalla finestra. Si rivolse di nuovo a me e riprese: "Mi dissero che non avrei dovuto accettare, dopo l'armistizio di Badoglio e la mia liberazione, il posto di capo dello stato e del governo della Repubblica Sociale. Avrei dovuto ritirarmi in Svizzera, o in uno stato del sud America. Avevo avuto la lezione del 25 luglio. Non bastava, forse? Era libidine di potere, la mia? Ora chiedo: avrei dovuto davvero estraniarmi?. Ero fisicamente ammalato. Avrei potuto assistere oramai da spettatore allo svolgersi degli avvenimenti. Ma cosa sarebbe successo? I tedeschi erano nostri alleati. L'alleanza era stata firmata e mille volte si era giurata reciproca fedeltà, nella buona e nella cattiva a sorte. I tedeschi, qualunque errore possano aver commesso erano, l'otto settembre, in pieno diritto di sentirsi e calcolarsi traditi. Avevano il diritto di comportarsi da padroni assoluti. Avrebbero senz'altro nominato un loro governo militare di occupazione. Cosa sarebbe successo? Terra bruciata. Carestia, deportazioni in massa, sequestri, moneta di occupazione, lavori obbligatori. La nostra industria, i nostri valori artistici, industriali, privati, tutto sarebbe stato bottino di guerra. Ho riflettuto molto. Ho deciso ubbidendo all'amore che io ho per questa divina adorabile terra. Ho avuta precisissima la convinzione di firmare la mia sentenza di morte. Non avevo importanza più. Dovevo salvare il più possibile vite ed averi, dovevo cercare ancora una volta di fare del bene al popolo d'Italia E la moneta di occupazione, i marchi di guerra, che già erano stati messi in circolazione, sono stati per mia volontà ritirati. Ho gridato. Oggi saremmo con miliardi di carta buona per bruciare. Invece nel Sud, i governanti hanno accettato le monete di occupazione. La più tremenda delle inflazioni delizia quelle regioni così dette “liberate”. Quando arriveranno nel Nord, in questo Nord che la Repubblica Sociale ha governato malgrado bombardamenti, interruzioni di strade, azioni di partigiani e di ribelli, malgrado la mancanza di generi alimentari e di combustibili, in questo Nord dove il pane costa ancora quanto costava 18 mesi fa e dove si mangia alle “mense del popolo” anche a 8 lire, quando arriveranno a “liberare” il Nord, porteranno, con altri mali, l’inflazione. Mi sono imposto e ho avuto uomini che mi hanno ubbidito. Non si è stampato che il minimo occorrente, di moneta. Ho però autorizzato le banche ad emettere degli assegni circolari, questi tanto criticati assegni. Non sono tesaurizzabili: ecco la loro importanza. La lira-moneta automaticamente viene richiesta, acquista credito, le rendite e i consolidati sono saliti a 120. Ho impedito che i macchinari venissero trasportati in Baviera. Ho cercato di far tornare migliaia di soldati deportati, di lavoratori rastrellati. Dalla Germania sono tornati oltre 400.000 soldati ed ufficiali prigionieri, o perché hanno optato per noi o per mio personale interessamento. Ho impedito molte fucilazioni, anche quando erano giuste. Ho cercato, con tre decreti di amnistia e di perdono di procrastinare il più possibile le azioni repressive che i comandi germanici esigevano per avere le spalle dei combattenti protette e sicure. Ho aiutato tanta povera gente, senza informarmi delle idee dei singoli. Ho cercato di salvare il salvabile. Fino ad oggi l'ordine è stato mantenuto: ordine nel lavoro, ordine nei trasporti, nelle città… Dovevo, di fronte ad una situazione che vedevo tragicamente precisa, disertare il mio posto di responsabilità? Leggete: sono i giornali del Sud: “Mussolini prigioniero dei tedeschi”, “Mussolini impazzito”, “Mussolini ammalato”, “Mussolini con la sua favorita”, “Il Duce fuggito in Brasile?". Poi strinse il pugno e lo batté con energia sul tavolo: "Invece sono qui, al mio posto di lavoro. Lavorerò anche in Valtellina. Cercherò che il mondo sappia la verità assoluta e non smentibile di come si sono svolti gli avvenimenti di questi cinque anni”. Chiesi: "Ma c'è è ancora una speranza? Ci sono davvero le armi segrete?". "Ci sono. Sarebbe ridicolo e imperdonabile bluffare. Se non fosse avvenuto l'attentato contro Hitler nell'estate scorsa, si avrebbe avuto il tempo necessario per la messa in azione di queste armi. Il tradimento anche in Germania ha provocato la rovina, non di un partito, ma della patria". Quando pronunciò la parola "tradimento" esclamai: "Ma noi vi siamo stati e vi saremo sempre fedeli". Egli, allora, mi pose la mano sul braccio e mi disse con accento triste: "Quanti giuramenti! Quante parole di fedeltà e di dedizione! Oggi solo vedo chi era veramente fedele, chi era veramente fascista! Siete voialtri, sempre gli stessi fedeli delle ore belle e delle ore gravi. Facile era osannare nel 1938! Ho una tale documentazione di persone che non sapevano più che fare per piacermi! E al primo apparire della tempesta, prima si sono ritirati prudentemente per osservare lo svolgersi degli avvenimenti. Poi si sono messi dalla parte avversaria. Che tristezza. Ma che conforto, finalmente, poter vedere che vi sono i puri, i veri, i sinceri. Tradire l'idea... tradire me... ma tradire la patria…". "Duce, pensate che inglesi e americani possano vedere i russi arrivare nel cuore dell'Europa? Non sarà possibile una presa di posizione...?". "I carri armati che penetrano nella Prussia Orientale sono di marca americana". A questo punto Mussolini volle precisare che non riteneva, oramai, più possibile sperare in un capovolgimento del fronte. Disse anche: "Forse Hitler si illude". Poi alzò le sopracciglia, fece un ampio gesto con le mani, quindi riprese: "Il compito degli alleati è di distruggere l'Asse. Poi...". "Poi?". "Ve l'ho detto. Scoppierà una terza guerra mondiale. Democrazie capitalistiche contro bolscevismo. Solo la nostra vittoria avrebbe dato al mondo la pace con la giustizia. Mi hanno tanto rinfacciata la forma di disciplina che imponevo agli italiani. Come la rimpiangeranno. E dovrà tornare se gli italiani vorranno essere ancora un popolo e non un agglomerato di schiavi… E gli italiani la vorranno, la esigeranno. Cacceranno a furor di popolo i falsi pastori, i piccoli malvagi uomini asserviti agli interessi dello straniero. Porteranno fiori alle tombe dei martiri, alle tombe dei caduti per un'idea. Diranno, allora, senza piaggeria, e senza falsità: Mussolini aveva ragione". Il Duce a questo punto prese le cartelle dove avevo messo gli appunti. "Non farete un articolo. Riprendete da questi appunti quello che vi ho detto. Dopodomani mattina mi porterete il dattiloscritto. Se ne avrò tempo riprenderemo fra qualche giorno questo lavoro". Dissi che in anticamera era il mio redattore capo, già direttore di un settimanale di Brescia. Mussolini lo fece chiamare. Rimanemmo ancora dieci minuti in udienza. Terminai la stesura delle cartelle quella stessa notte, al giornale. Per mancanza di carta, dovetti scrivere le ultime quattro cartelle al rovescio delle prime quattro. Lavorai come potei: Tre allarmi aerei, tre volte la luce si spense. La mattina del 22 aprile, alle 11, tornai in Prefettura. Mussolini era fuori. Fece ritorno alle 12,40. Camminava cupo e con passo rapido. Gli avvenimenti precipitavano con un ritmo che non consentiva più illusioni: gli angloamericani si erano avvicinati vittoriosi alla linea del Po. Ogni speranza in una qualsiasi resistenza svaniva, tanto per l'esercito tedesco, quanto per i fascisti. Già echeggiava il sinistro: "Si salvi chi può". Perciò Mussolini doveva già avere la visione, forse ancora nebulosa ma non per questo meno drammatica, della prossima fine. Ci vide. Rispose con aria stanca ai nostri saluti. Quando fu sulla soglia della sua stanza da lavoro, si voltò e mi fece cenno di attendere. Barracu, dopo una decina di minuti, mi introdusse da lui. Stava mangiando. Gli avevano portato una zuppiera. Sorbì alcune cucchiaiate di minestra. Mangiò un po' di verdura, un pezzettino di lesso, due patate e una carota bollita. Poi una mela. Bevve due dita di acqua minerale. Quindi si volse verso di me, e mi disse: "Fatemi vedere il vostro lavoro". Scostò delle carte. Lesse con attenzione, lentamente. Il suo volto aveva visibili tracce di stanchezza. Alla distanza di sole 48 ore, sembrava molto invecchiato. Corresse e tracciò molti segni, come risulta dal dattiloscritto. Quindi volle siglarlo, apponendo in calce all’ultimo foglio la sua ben conosciuta inconfondibile “M”. Alla fine mi disse: "Va bene. Ci rivedremo, forse, in Valtellina. Altrimenti, qualunque cosa accada, non fate pubblico questo scritto. Se dovesse accadere il crollo, per almeno tre anni tenetelo nascosto. Poi fate voi, secondo il vostro criterio. Ora andate". Salutai senza poter dire una parola. Mi fece un gesto di arrivederci. Uscii dalla Prefettura con l'animo in tumulto. Non dovevo più rivederlo
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